lunedì 12 dicembre 2016

Un mondo perfetto

Il mio nuovo racconto, Un mondo perfetto, dedicato a tutti gli Albert e i Crazy Russian. Se vi piace, lasciate un commento! Se non vi piace, lasciate un commento ;)


Era arrivato a Union Square attraverso un dedalo di vie. Aveva girato intorno alla New York University, superato Washington Square e imboccato la Quinta Avenue. Poi aveva camminato a lungo fintanto che gli alberi della piazza, intravisti dalla 15-esima Strada, non gli erano apparsi come un miraggio.  Superato l’ultimo semaforo, si era trovato finalmente di fronte a un’oasi verde, come se avesse varcato i cancelli di una dimensione più ampia, più naturale, attorno alla quale il traffico si disperdeva come le pieghe di un tessuto ben spazzolato.

Dopo essersi guardato attorno per qualche istante, era andato a sedersi su una panchina dei giardinetti all’altezza dell’incrocio con Broadway. Ed era rimasto a lungo a fissare i numeri apparentemente casuali del Metronome, fino a quando, almeno, aveva abbassato lo sguardo. Fu allora che sorrise, guardando il suo orologio, come se avesse riconosciuto qualcosa che capiva e amava.

Osservava il pannello di pietra, al centro dell’installazione, simboleggiante un pendolo che muove le acque, le cui increspature formano dei cerchi concentrici. Un movimento oscillatorio che serve a misurare il tempo. Guardava e riposava. Sembrava lasciarsi cullare da quelle onde che lo portavano indietro nei suoi ricordi e a qualche pensiero di troppo.

Era così stanco che si assopì. Quando riaprì gli occhi, il Metronome era ancora lì, davanti a lui con le foglie d’oro lungo le increspature di quelle onde pietrificate che brillavano illuminate dall’energia del sole.

Quando si alzò per riprendersi dal torpore del sonno breve ma intenso a cui si era abbandonato, vide alle sue spalle un gruppetto di studenti, forse tra di loro c’era qualcuno dei suoi, che si stava raccogliendo sotto la statua di George Washington con striscioni e cartelli. Verso il centro della piazza si sentiva l’eco di una protesta.

Distratto da quelle voci fece una piccola deviazione per guardare i giocatori di scacchi allineati lungo i gradini. Era rimasto catturato da come giocavano: dalle mosse rapide e dallo scatto con cui allungavano la mano per fermare il tempo della partita. Aperture spericolate con cavalli e alfieri che correvano lungo traiettorie avventurose si susseguivano. Torri che restavano in paziente attesa dietro i pedoni. Sui quadrati di quel piccolo mondo che si apriva sui loro tavoli di plastica si sfidava la logica. 

Attorno c’era un andirivieni di gente, giocatori ostinati, spettatori curiosi.

In quanto a lui, in maniche di camicia, stava osservando, con l’aria di saperne qualcosa.

“Una partita?” gli chiese uno di quei giocatori. E nel vederlo esitare mentre si sistemava il ciuffo bianco, indisciplinato, fu così gentile da sostituire la cassetta di plastica che serviva da sgabello con una sedia vera presa in prestito dal vicino. Lo convinse così a giocare, con un gesto da niente; una partita da cinque minuti, un prezzo da pagare cinque dollari. Non un dollaro di più, non un minuto di meno. Cinque era il frutto di una regolamentazione a cui i giocatori della piazza erano arrivati nel nome di una convivenza che garantisse guadagni per tutti. Cinque è un numero intoccabile non essendo la somma dei divisori di nessun altro numero.

“Il vincitore si mangia il piatto” disse il giocatore che era un tipo loquace. E mentre allineava i pezzi sulla scacchiera chiacchierava per tutti quelli che lo stavano ad ascoltare.

“Sai perché ho due orologi al polso?”
Forse a nessuno realmente importava il perché e allora rispose da sé: “Perché è tutta una questione di tempo. Il tempo è tutto”.

La partita finì in fretta. Non era servito a nulla arrotolarsi le maniche della camicia, sistemarsi i capelli, schiarirsi la gola. Aveva gli occhi fissi sulla scacchiera e stava ancora pensando alle possibili evoluzioni del gioco quando il suo cronometro segnò la fine dei cinque minuti. Quello del suo avversario loquace invece non si era che impercettibilmente mosso. Ad ogni angolo di mondo c’è un orologio che misura il tempo relativo delle cose. Tra il pubblico che assisteva alla partita, molti erano andati a guardare altrove perché quel signore, dall’aria di saperne qualcosa, aveva mosso soltanto tre pedoni.

“Ne fai un’altra?” gli chiese il giocatore speranzoso di dollari facili.

E allora, sempre coi modi di capirne qualcosa, si preparò per un’altra partita e tirò fuori da una bustina di pelle un altro biglietto da cinque.  Giocò in tutto per un paio di mosse. Finì mentre pensava alla variante migliore su quella linea di fronte che si apriva davanti alla sua. Infine si alzò, salutò, si scusò per non essere più bravo come una volta a giocare col tempo e si diresse verso la metropolitana.
La giornata era stata lunga. A pochi passi dal chioschetto di ingresso della metro, sistemato su un muricciolo, un poeta – ma aveva tutta l’aria di essere un mendicante – vendeva versi a un quarto di dollaro. Quando gli passò davanti, si sentì chiamare: “Ehi tu! Dico a te! ci conosciamo?”

Lo guardò bene quel mendicante senza sapere cosa rispondere. Quel mattino mentre camminava per strada, si era girato per istinto sentendo chiamare il nome di Albert. Ma quando Crazy Russian, così si era presentato il poeta-mendicante, gli chiese il suo nome, gli uscì di bocca solo Al.

“Ti sei fatto fregare da quelli?”

Al non disse nulla.

“Li ho fatti io” gli disse allora Crazy Russian porgendogli il foglietto di una poesia scritta con la calligrafia stentata di un bambino.

Guarda com'è pacifico il mondo.
La notte
ha imposto al cielo
un tributo stellato.
È in ore come questa
che si sorge
e si parla ai secoli,
alla storia,
alla creazione.

“Sono molto belli” disse Al dopo essersi preso tutto il tempo necessario per leggerli.
“Non sei di qui, vero?”

Crazy Russian era curioso per via di quell’accento duro in gola con cui Al, o come diavolo si chiamava, parlava. Al scosse la testa e fece una smorfia. Crazy Russian lo guardò con sorpresa anche se era da tanto che non si stupiva più di nulla.

“Dove sei nato?” gli chiese impaziente rompendo il silenzio.

La risposta di Al venne dopo un attimo di riflessione mentre cercava di mettere insieme il quarto di dollaro con cui pagare i versi di Crazy Russian.

“Ho vissuto a lungo in Svizzera”.

Crazy Russian scosse la testa, per dire che aveva capito e approvava.

“Io invece sono nato qua, in questo buco di merda” incominciò a dire.

“Fame, umiliazioni... ogni dannata cosa. E miseria. In queste stramaledette strade non c’era che miseria quand’ero bambino. E quando sono cresciuto, era persino più orribile di quando sono nato. E si fa ogni volta peggiore”.

Al lo guardava senza dire nulla.

“Non c’era niente una volta di tutto quello che c’è oggi. E quello che c’era, adesso non c’è più. L’Astor, la Pennsylvania Station, il vecchio Madison Square Garden… tutto sparito… col tempo si fa sempre più orribile” diceva scuotendo la testa.

“Oggi è la città più brutta, lurida, merdosa del mondo”.

Mentre parlava, Crazy Russian osservava Al frugare tra le monete.

“E Brooklyn? se penso a Brooklyn… quante volte ho attraversato il ponte, a pancia vuota, a denti stretti, avanti e indietro, a elemosinare qualcosa, mai avuto niente... vendevo giornali a Times Square, mendicavo a Broadway. Ogni tanto tornavo a casa con 10 centesimi”.

Poi Al si stufò di contare e fece scivolare una manciata di monete nella scatola da cui Crazy Russian tirava fuori i suoi versi.

“Eh no, non c'è da stupirsi se ho avuto tanti incubi in tutta la mia vita” disse Crazy guardando la scatola.

“Non so come ho fatto a sopravvivere e a rimanere in me. Ancora adesso non so se sono sveglio o sto sognando. Tutta la mia vita mi sembra un lungo sogno attraversato da incubi”.

Al gli sorrise con fare dolce. Ripiegò il foglietto con la poesia e se lo mise in tasca prima di imboccare le scale della metropolitana. Camminando verso i treni, si ricordò di essersi trovato un giorno a bordo di un tram e di aver visto la torre dell’orologio che domina Berna. Immaginò cosa sarebbe successo se quel tram fosse schizzato via allontanandosi alla velocità della luce. Si rese subito conto che l’orologio della torre gli sarebbe apparso fermo mentre il suo, nel taschino, avrebbe continuato a ticchettare. E se fosse tornato dopo un lungo volo, avrebbe trovato che lì già da tempo erano cresciute nuove generazioni, mentre lui non era che minimamente cambiato.

Quando uscì in superficie a Grand Central, un raggio di sole tiepido gli attraversava il corpo. Notò la gentilezza della calda stella gialla al tramonto. Attorno a lui si muoveva l’universo della città.

2 commenti :

  1. Ti lascio un commento!

    I versi, mi sono presa tutti il tempo per leggerli ;)

    Mi è piaciuta la disinvoltura con cui hai srotolato una dimensione, proprio agli inizi, per poi riavvolgerla, in un certo senso, alla fine.
    E la suggestione degli scacchi mi ha conquistata! Ma devo ancora lasciarla sedimentare... c'è nascosto un tesoro in quelle righe, e lo scoprirò alla prossima lettura.

    Non ho capito il cinque però :( è due più tre e tre per due fa sei! Cosa mi sfugge?

    E insomma grazie! È bello seguire le tue storie tra le vie di città lontane e sentirle vicine.

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    1. Ti ringrazio tantissimo per il commento, anzi mi scuso per essere stato avaro con il tuo racconto, che però mi ha colpito molto e voglio tornarci con più calma.

      Dunque, cinque. Cinque è solo un tocco di realtà, costa davvero 5 dollari una partita a scacchi a Union Square. Personalmente non sono andato oltre

      Dopo questa premessa, grazie per avermi letto e per vedere cose che mi sfuggono, scrivendo spesso di getto!

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